Pochi giorni fa ho ricevuto un SMS dalla delegazione AVIS (l’Associazione Volontari Italiani del Sangue) della mia cittadina.
Di tanto in tanto può accadere che ci sia carenza di sangue e che la sede locale invii messaggi accorati ai donatori ricorrenti affinché si presentino per incrementare le scorte. Solitamente si tratta di un problema stagionale legato all’indisponibilità delle persone che partono per le vacanze, estive o invernali che siano. In questi difficili tempi di pandemia, vincolati da limitazioni che vanno e vengono e rompono le routine, le abitudini e in parte anche i doveri, l’emergenza è diventata continua e le difficoltà organizzative che abbiamo vissuto durante il lock-down del 2020 sono lentamente diventate scuse persistenti per rinunciare alla donazione.
Discutevo di questo atteggiamento di molti donatori con il presidente della sezione alla quale sono iscritto e mi sono trovato a riflettere sul significato stesso dell’espressione “donare il sangue”. Perché il gesto è esattamente questo: un dono.
“Un dono non è un obbligo”, mi spiegava convinto.
Io non sono del tutto d’accordo; tutto del mio modo di essere, della mia cultura e del poco sapere che mi è rimasto in testa mi dice che il dono “sociale” è un dovere (che non è necessariamente un obbligo ma neanche una concessione offerta per grazia).
Che cos’è il “dono”? Curiosamente, non è la stessa cosa in tutte le culture.
Quando viaggi molto e ti confronti con culture diverse, sei costretto dai fatti e dalle persone a valutare quella del tuo paese da più angoli e prospettive diverse. Il più delle voltesi fanno valutazioni in modo selettivo e differenziale, molto spesso con spirito acritico mascherato da critico (“Ah, che paese civile questo… non come il mio!”), quasi mai in modo davvero distaccato e onesto.
Diamo per scontato che il Paese in cui viviamo e che viviamo quotidianamente sia un fenomeno nell’hic et nunc della storia, capitatoci così com’è per caso e per responsabilità -se non colpa- di qualcuno al quale addossare la colpa di tutto.
Ma il Paese è figlio di un processo di evoluzione culturale millenario, un quadro stratificato in sovrapposizioni di culture e di modelli di società, di diritto, di commercio, di fede, di ricerca e di pensiero, di tesi e antitesi che producono una sintesi. La lingua italiana, così articolata e complessa rispetto a molte altre lingue ben più diffuse, così ricca di sfumature e di toni è la somma tradotta in regole grammaticali e sintattiche di un’infinità di significati che sono realtà materiale, azione e pensiero radicato in noi. Una lingua che ha più parole di altre per descrivere le sottili differenze di una stessa cosa già tradisce la multi-prospettiva, la natura poliedrica e adattiva del popolo che la incarna e che ha imparato a vivere in questa “unione di distinguo”. Logica vorrebbe che questo popolo fosse l’archetipo di una società composita e pacificamente convivente.
Eppure, ultimamente, l’evidenza che la società che siamo diventati, bellicosa e inconcludente, distruttiva e ammantata del più bieco nazionalismo populista travestito da esterofilia, mi pare rappresentare il prodotto della totale negazione delle nostre origini culturali ed è così fastidiosamente stridente da risultare preponderante rispetto al rumore di fondo di qualsiasi tentativo di rimanere ancoràti al modello di società che abbiamo costruito in due millenni di contaminazioni, conflitti e faticose sintesi. Una violenza che usiamo contro noi stessi in nome di una realtà aliena al nostro modo di essere e di sentire più profondo. Con troppa sufficienza chi non vuole approfondire liquida la questione con “i tempi cambiano”. Potrei essere d’accordo, su scala quantomeno secolare ma non certo su scala mensile!
Per capire chi siamo, a volte basta fermarsi a pensare al significato di alcune parole e perché noi usiamo proprio quelle e non altre. Per quanto incattiviti e litigiosi è indubbio che noi italiani siamo una comunità.
La radice di “comunità” è il latino “munus”, parola splendida che trasuda la natura stessa del nostro popolo che nella sua storia fatta di frammentazione e divisioni ha trovato con costanza gli elementi dell’unità. Munus significa “dono”, in particolare il dono funebre o quello votivo cioè per definizione una gratuità che non ricerca o presuppone uno scambio. Nella nostra cultura il dono è per definizione asimmetrico, crea uguaglianza, riequilibra le disparità dotando chi non ha di qualcosa che altri hanno. Non è mercantile: è sociale.
Al tempo stesso munus significa anche “dovere”; che cos’è una donazione senza ritorno se non un servizio? Nell’antica Roma il “dovere”, inteso appunto come principio attinente a una carica o funzione pubblica, era un servizio, un dono di competenze, tempo e risorse personali agli altri.
Siamo una comunità e una comunità è un “com-munis”, un insieme di persone che si obbligano al prestare servizio insieme, si vincolano al dono reciproco. Siamo una comunità perché nella capacità comune di dare ciò che abbiamo a chi non ha riequilibriamo le disparità e ci supportiamo vicendevolmente.
Da venti anni (o forse più, la mia memoria sfuma nella distrazione giovanile a mano a mano che risalgo indietro nel tempo), con una rapida accelerazione negli ultimi due o tre, stiamo violentando questa profonda radice culturale che ha fatto delle parole soggetti vivi e materiali modellati e al tempo stesso modellanti il nostro modo di vivere e pensare, per agire per sostituzione semantica e dare alla vita l’indirizzo definito da parole e significati che appartengono a altre culture.
Ci siamo appiattiti su una idea di non-società, di non-comunità che se è vero che non può esistere senza considerare i mercati e il consumo, ha il demerito di averlo trasformato nel fine stesso della vita e di aver fatto propria una cultura mercantile e pragmatica fino alla violazione di principi etici che ci arricchisce materialmente impoverendoci inesorabilmente dal punto di vista sociale e culturale, amplificando le disparità sociali.
Il pragmatismo e una cultura fortemente mercantile hanno fatto degli USA il gigante per molto tempo tecnicamente e commercialmente egemone; tuttavia, ricordo che quando ero un ragazzino eravamo un popolo orgoglioso della nostra diversità all’interno del consesso mondiale degli esseri viventi; vantavamo e opponevamo una maggiore consapevolezza culturale e storica alla cultura del “tutto e subito” priva di una storia dalla quale attingere informazioni su come affrontare consapevolmente il futuro.
Oggi questi valori paiono essere additati come vestigia del passato, retaggio di un Paese che non vogliamo più senza però sapere indicare dove vogliamo traghettarlo e come; soprattutto, senza avere neanche le parole per descriverlo. Così ci siamo affidati ai significati che alle nostre stesse parole danno altri e li abbiamo assorbiti, goccia dopo goccia, nel nostro modo di vivere e di pensare, fino a sostituire i significati per noi più naturali. Non li abbiamo integrati, non li abbiamo giustapposti per poter entrare nei nostri secolari processi di sintesi: li abbiamo sostituiti, velocemente, senza aver realmente acquisito e valutato le implicazioni del nuovo significato.
“Dono” in inglese si dice “gift”. Non è un caso che gift in tedesco significhi “veleno”.
Nelle pragmatiche “tank culture” anglosassoni, il dono è l’elemento corruttore che non genera profitto e che avvelena la società creando disparità, togliendo a me per dare a te, essendo quindi non un servizio ma un sacrificio.
Davvero vogliamo una società così?
Andate a donare il sangue. Scoprirete che munus è migliore di gift.
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