Nel corso dei decenni abbiamo letto le cronache e in molti casi avuto la fortuna di assistere a imprese aerospaziali incredibili. In piena Guerra Fredda il lancio dei primi satelliti artificiali con il loro carico di entusiasmo umano per l’avventura nell’ignoto e la paura per le conseguenze militari ha fatto sì che la gente desiderasse che la propria nazione avesse la capacità di fare altrettanto. È bastato questo a spingere la corsa allo spazio. Poi sono arrivati i primi satelliti diretti verso la Luna, lo sbarco di un essere umano sul nostro satellite naturale, le missioni interplanetarie e la messe affascinante di immagini provenienti da altri mondi (come dimenticare le fotografie scattate dalle sonde Viking su Marte), la delusione per l’inconcludenza della ricerca di vita sul suolo del pianeta di ruggine e la sensazione di essere soli, la maestosità della visione della Grande Macchia Rossa dall’orbita di Giove, il passaggio attraverso gli anelli di Saturno è l’inquietante “rumore” elettromagnetico che le loro rade particelle hanno lasciato nei registratori di volo delle sonde Voyager, il superamento dei confini del sistema solare a opera delle missioni Pioneer 10 e 11, la prima volta della doppia fionda orbitale per far avvicinare un satellite a una cometa, fino allo sbarco su una di esse! Che cosa dire della sonda Huygens che è scesa su Titano dopo un volo di milioni di km realizzato grazie alla matematica e all’ingegno umano? Durante questa galoppata fantastica, iniziata come corsa militare, le missioni sono diventate internazionali e la logica dei blocchi contrapposti ha lasciato spazio a collaborazioni inimmaginabili negli anni ’50. A partire dalla missione congiunta Apollo-Soyuz il mondo in orbita è cambiato in modi che purtroppo non si sono riflessi altrettanto bene su ciò che è rimasto a terra.

Ciascuna di quelle imprese ha spesso interessato anche chi non ha un’attenzione costante nell’astronautica; di fatto e progressivamente ogni impresa successiva alla missione Apollo 11 ha generato un entusiasmo transitorio, se non del tutto marginale. Quel tipo di attenzione temporanea che si prova per qualcosa che si è letta sul giornale al mattino, magari in bagno, tra le spigolature delle notizie di secondo piano. Già la missione Apollo 13, non avesse catturato l’attenzione del mondo per l’incidente arcinoto, sarebbe stata destinata a un modesto contributo all’interno dei TG dell’epoca ma non certo alle dirette e alle maratone televisive delle due missioni precedenti (con buona pace dei Mentana dell’epoca). Passione per le possibilità dell’intelligenza umana trasformata rapidamente in routine.

Eppure qualcosa ieri è cambiato.

Ieri la SpaceX di Elon Musk ha compiuto con successo un altro lancio del suo vettore Falcon. Non un lancio qualsiasi bensì un lancio speciale nell’economia dell’astronautica planetaria: a decollare è stato il missile più potente attualmente in esercizio a livello mondiale, l’unico in grado di spedire in orbita l’equivalente di un Boeing 737 pieno zeppo di passeggeri e relativi bagagli; ancor più importante, l’unico in grado di inviare fuori dall’orbita terrestre un carico di massa equiparabile all’accoppiata Modulo di Comando e LEM di memoria ormai lontana. Insomma, un missile che può mettere persone in una scatola iper tecnologica e farla arrivare su un nuovo mondo. Un risultato notevole ma che di per sé non giustifica l’entusiasmo da stadio cui stiamo assistendo. Lo abbiamo già fatto (con buona pace dei lunacomplottisti).

Eppure è stato un lancio speciale perché abbiamo visto questo missile-monstre composto da tre razzi, arrampicarsi verso il cielo spremendoli fino all’ultima stilla di carburante per poi lasciarli liberi di tornare a terra. Non precipitando e bruciando, no! Riaccendendoli e facendoli posare maestosamente a terra esattamente nei punti prestabiliti. L’immagine di due di questi razzi che atterrano all’unisono uno vicino all’altro è degna delle migliori sequenze cinematografiche di fantascienza. Eppure lo abbiamo già visto: tutti i razzi Falcon sono tornati a terra nello stesso modo (a volte non proprio nel modo atteso) e dopo la prima volta, l’operazione è diventata routine: ci si aspetta che funzioni.

Eppure è stato un lancio speciale perché portava un carico destinato a essere inviato in orbita marziana “larga” (diciamo un’orbita “con” Marte più che attorno a Marte nel modo cui decenni di missioni spaziali ci hanno abituati). Nulla di realmente nuovo: siamo tornati in orbita marziana stretta poco più di due anni fa per dare inizio a una serie di missioni di verifica delle tecnologie necessarie a progettare una missione umana e non si sono generati questi entusiasmi. Anzi, noi italiani siamo ancora piuttosto delusi e infuriati per le ragioni dello schianto in mondovisione della sonda Schiaparelli.

Sono tanti “bello… però..”, vero?

Allora perché il lancio del Falcon Heavy è così affascinante e entusiasmante? Perché le altre missioni recenti, nell’apatia di un genere umano che non si stupisce più di nulla, si portano dietro una fascinazione da minus habens (o da “ubi maior…” se lo trovate meno offensiv. In tempi in cui la competenza è vista come una disgrazia io penso che la seconda forma sia poco verosimile). Ne leggiamo sulla stampa, ne vediamo le immagini in TV e proviamo un’immediato nonché temporaneo orgoglio perché ci piace godere della prova d’ingegno e capacità degli ingegneri e degli scienziati che le hanno concepite come se parlassimo di un’intelligenza collettiva, come se ci riferissimo a un’intelligenza di specie e quindi anche nostra. Confondiamo la competenza con l’intelligenza, la dedizione con l’ottusità e nel valore delle prime riflettiamo la negatività delle seconde. Per questa ragione l’entusiasmo dura poco, giusto il tempo di dare una leccata al nostro ego di Homo Sapiens per poi svanire nell’oblio sovrastata da emozioni più forti e ormonali; lasciamo che escano dal nostro orizzonte perché le finalità specialistiche delle missioni ci sono aliene, spesso incomprensibili per natura e altrettanto spesso non chiare per obiettivi di lungo termine, presi come siamo dal vivere nell’hic et nunc senza porci troppe domande e senza darci scopi generazionali. Un’entusiasmo sincero e un interesse pieno presuppongono la capacità di vedere le finalità di lungo periodo per scorgere le quali è più importante concentrarsi sul valore del percorso che conoscere il finale della storia già alla seconda puntata. Estranei al concetto di sacrificio per il vantaggio postumo di chi ci segue nel ciclo della vita, accendiamo e spegniamo l’attenzione e l’interesse come una lampadina che consuma troppo.

Al contrario, il lancio del Falcon Heavy ci fa immedesimare in modo diretto nella vicenda perché si porta dietro una prospettiva chiara, semplice, condivisibile e quindi condivisa: il sogno di andare su Marte. È il sogno di Elon Musk e la ragione per la quale ha fondato SpaceX. È anche il mio sogno e con me probabilmente il sogno di metà degli abitanti del pianeta. Nel mio caso è rimasto un sogno; forse l’ho percepito come un qualcosa non alla mia portata, forse non ho le caratteristiche giuste per cogliere la poesia di un sogno e trasformarla nella complicata e lunga strada, spesso costellata di delusioni, che porta alla realtà. Fatto sta che il sogno ha permeato tutta la mia vita ma al più è percolato nel quotidiano in modo collaterale, contaminando il mio lavoro. Durante più di venti anni di ricerca nel campo delle realtà virtuale e aumentata, ogni singolo prototipo che ho realizzato per mettere alla prova ciò che avevo teorizzato a preso in prestito questo sogno e permesso di “vivere” virtualmente su Marte, orbitarci attorno, avere l’illusione di essere lì. Ho continuato a sognare limitandomi a rendere il sogno più vivido. Elon Musk, al contrario, ha investito tutta la sua vita da adulto per rendere il sogno una realtà oggettiva. Non si è limitato a tenere gli occhi chiusi e sognare ma li ha aperti e ha realizzato tutto ciò che è necessario per materializzare questa visione onirica. È dormendo che si sogna ma è solo svegliandosi che si crea. Il suo entusiasmo è contagioso; partire da zero e costruire la tecnologia necessaria rende l’impresa non solo verosimile ma vera. Non fermarsi di fronte ai fallimenti e andare oltre ai ritardi senza demoralizzarsi ma facendo sempre il massimo possibile per realizzare ciò che ci si è prefissi lo rende credibile; soprattutto, convince tutti noi che ciò che ancora non si può fare lo si potrà certamente realizzare perché, avendolo messo nel mirino della nostra attenzione, non è più solo un problema astratto bensì un problema che stiamo affrontando. E nulla può fermarci quando dobbiamo rimuovere un ostacolo che si frappone tra noi e i nostri scopi. È consolatorio e incentivante al tempo stesso. E accomuna Elon Musk a tutti i grandi achiever della storia, vale a dire alle persone di successo sostanziale e non solo materiale.

Il fatto che a percorrere la lunga rotta verso l’orbita marziana non sia un complicato satellite dagli utilissimi e complicatissimi strumenti scientifici bensì una Tesla cabrio (non una Tesla qualsiasi ma quella di Elon Musk stesso!) guidata da Starman, un fantoccio di astronauta vacanziero col braccio fuori dal finestrino in una postura spavalda, mentre l’autoradio suona Space Oddity del Duca Bianco e una nutrita schiera di telecamere trasmettono in diretta le immagini della Terra che si riflette sul cofano e dello schermo del navigatore di bordo che dice “Don’t panic”, ci dice che quello non è solo il sogno di un miliardario che vive a altezze inarrivabili: è il sogno di ognuno di noi, è il sogno di un ragazzo che è intriso della nostra cultura popolare, degli stessi riferimenti culturali non accademici, dello stesso senso del surreale. Uno che potresti incontrare la mattina al bar a pucciare il cornetto nel cappuccino e a lamentarsi dell’Inter e con il quale guardare Zoolander la sera sul divano di casa. È il genio nella sua dimensione umana.
Con il lancio del Falcon Heavy di ieri non abbiamo assistito a Elon Musk che spediva un proiettile a quattro ruote verso Marte ma abbiamo partecipato noi stessi all’impresa di realizzare il sogno in quanto persone normali che hanno aperto gli occhi e hanno trovato una didascalia comprensibile. Ieri, in quanto Genere Umano, abbiamo iniziato a camminare per andare su Marte, un giorno. Un giorno che grazie alla determinazione di Elon sono sicuro che camperò abbastanza per vedere.

https://www.youtube.com/watch?v=y3niFzo5VLI

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