Per venti anni hanno avvelenato i pozzi della comunicazione, stracciato i legami sociali, spaccato le coscienze e divelto ogni paletto del confronto civile. Negli ultimi spiccioli di calendario siamo andati oltre, scalando la montagna dell’asprezza di un confronto “politico” ormai sprofondato alle bande armate e all’insolenza tipica della pochezza di contenuti per salire alle vette dell’attacco diretto, alla persona in quanto tale senza nessuna attinenza alla questione politica del caso. Toccando amici, parenti, conoscenti, contigui; arrivando a dileggiare o chiedere l’ostracismo per figli, congiunti e conoscenti rei di essere prossimi a qualcuno che non ci va giù.

Così i figli talentuosi di qualcuno famoso o potente, che si sono impegnati negli studi, hanno onorato i loro impieghi con dedizione e risultati, sono necessariamente dei raccomandati o dei truffatori o dei ladri o dei mariuoli. E se hanno pubblicato magari 50 studi scientifici di assoluto valore, sicuramente li hanno copiati o rubati a qualche poveraccio escluso ingiustamente dalle graduatorie. Mai un dubbio, mai il pensiero che ciò che hanno ottenuto lo abbiano meritano per le qualità che hanno espresso e che semmai il problema è che in questa società le opportunità perché il talento emerga è anche e soprattutto figlio del contesto in cui si vive? Alla fine dell’ottocento era ancora chiaro come da una famiglia benestante, di cultura medio alta e con una dinamica sociale di un certo tipo arrivassero più opportunità e mezzi per permettersi il percorso formativo e il numero di tentativi necessari per avere successo che non da una famiglia di campagna con pochi mezzi e che per necessità incide sul tempo di qualità dei figli con la gestione delle attività di famiglia. Ne erano consapevoli proprio coloro i quali con grandi difficoltà riescono a emergere e che fanno di tutto per creare condizioni più favorevoli ai propri figli; coloro che con i propri sacrifici ci hanno restituito figure che hanno ispirato generazioni indirizzandole ai valori del sacrificio, della dedizione e della determinazione. Oggi il tessuto sociale si è disteso, le opportunità si sono ampliate ma la dinamica di fondo è ancora quella, per quanto “ingiusta” sia. Quello che si è perso è il senso del merito e del sacrificio: non si chiede equità ma si chiede di avere accesso senza sforzo alle stesse condizioni e ruoli perché si è convinti che quelle condizioni e ruoli non dipendano comunque da un presupposto di capacità e preparazione. E’ il nichilismo del sapere e della competenza a vantaggio di un retaggio fatto di presunti diritti assoluti.

E poi ci sono i ladri, gli imbroglioni, i profittatori, gli ammanicati veri. Quelli famosi e potenti fanno più rumore ma le patrie galere e la cronaca ne assommano di più tra gli altri ranghi perché il posticino in comune o all’ASL lo chiede si il fruttivendolo per il figlio studiato come il famoso avvocato per il figlio che proprio non ce la fa. Aspirazioni diverse, vizi comuni.

Una società giusta e non settaria combatte i “ladri” senza considerazione per il rango. I ladri si combattono quando avviene un furto, non si arrestano tutte le persone del mondo perché potrebbero essere ladre secondo la nostra superiore opinione. Nè si può dare del ladro a uno che ladro non è.

Invece avveleniamo i pozzi e così chi ha di più lo ha perché ruba, chi ha di meno non lo ha perché è incapace, chi è più intelligente è in realtà marchiato come incompetente a vantaggio dell’elettrotecnico con la passione per la cura del cancro, e per tutta risposta chi è incompetente è solo un deficiente. Ci piace mescolare aggettivi a caso, avendo perso completamente il significato delle parole e le conseguenze che queste hanno nel profondo dell’animo delle persone; come quando da bambini si dava del “mongoloide” come sinonimo di “imbranato” ma con la differenza che con la sensibilità tipica dei bambini, una volta capito che cosa significasse davvero quella parola, abbiamo smesso e per tutto il resto della vita sfido a trovare un adolescente o adulto che dia del mongoloide a chicchessia. Invece possiamo dare del meschino, del ladro, del delinquente in libertà a gente che neanche conosciamo e che non ci siamo neanche premurati di conoscere prima di inchiodarli dallo scranno del nostro tribunale personale.

Si è iniziato con Prodi “mortadella”, passando per Brunetta e Berlusconi rispettivamente “nano” e “psiconano”, chiudere con i “PDioti” ai quali si è risposto con i “grullini”. E questo solo per la parte ridanciana… perché poi ci sono i “bastardi”, “figli di puttana”, “vi dovrebbero uccidere in piazza”, e via scivolando nel baratro dell’odio latente. Il tutto nel vuoto pneumatico di idee, programmi e competenze. Anzi! La competenza è diventata una stella di Davide apposta sulla giacca degli avversarsi di qualsiasi sorta, il segnale ai cecchini per indicare dove sparare.

Eh, già! Il mito del PDiota. Stando alla letteratura da 140 caratteri moderna, L’Italia è un paese popolato da una sparuta legione di persone oneste, con le idee chiare, giovani e preparate, lontane dal magna-magna globale, non legate ai vecchi partiti, distaccate dall’industria, estromesse dai grandi gruppi di potere, “ignorati dalla” e “ignoranti la” stampa asservita; poi ci sono parecchi milioni di PDioti. Elettori che per 20, ma che dico 50! anni non hanno fatto altro che mangiare, mangiare, mangiare a spese di tutto e di tutti. Ti poni una domanda? PDiota. Leggi una corbelleria e la correggi? PDiota. Provi a argomentare con il tuo sapere (ottenuto faticando, studiando, facendo concorsi, trovando un lavoro, onorandolo 14 ore al giorno e quindi… rubato) su qualcosa che il tuo interlocutore non conosce? PDiota.

E al PDiota si associa immancabilmente l’invito a cambiare partito per non essere colluso, per riscattare una vita ignobile passata a vivere alle spalle di quelli che oggi si sono rotti le scatole di questa situazione e ora col trattore a comandare ci vanno loro e saranno volatili per diabetici per tutti gli altri.

Ora, sarò all’antica o solo fuori dal tempo, io vivo nel convincimento che la politica sia una delle dinamiche sociali più alte, onorevoli e degne che vi siano. Per questo me ne tengo alla larga: non credo di avere i requisiti di competenza e centralità di giudizio necessari per affrontarla in modo utile e non dannoso. Sono anche convinto che le forme rituali, i canoni della dialettica politica, i protocolli istituzionali siano la chiave perché questo strumento di indirizzo sociale, economico, culturale rimanga nel binario dell’utilità per quanto aspra possa diventare la contesa e, in fin dei conti, rimanga civile.

Essendo forse all’antica (ma 2500 anni di storia politica alle spalle mi fanno sentire tutt’altro che solo in questa posizione), io concepisco il partito politico come l’organizzazione costruita su un insieme di valori e una visione della società ben precisi. Certamente i tempi cambiano, le esigenze mutano, le relazioni si ampliano e si complicano ma un valore, se è tale, rimane un valore: per quanto possa adattarsi, difficilmente si trasformerà nel proprio opposto. Quindi, nel momento in cui ci troviamo d’accordo su certi valori, ecco che aderiamo a un partito e ci riconosciamo nella sua visione della società. Sono i valori che guidano i programmi e i programmi attuano la società in cui crediamo.

Per questo, a meno che noi stessi non cambiamo in modo radicale, ho sempre trovato incoerente chi salta da un partito all’altro con la stessa frequenza con la quale si fa zapping tra i canali TV. Certamente non sempre le persone che guidano un partito ci piacciono e altrettanto certamente è possibile che di tanto in tanto scegliamo quelle sbagliate; però così come non cambiamo la pentola se abbiamo lasciato scuocere la pasta non dovrebbe essere automatico abbandonare un partito quando si finisce in minoranza o la dirigenza attuale attua politiche estranee a quell’universo dei valori. Si deve riportare l’aggregazione sul terreno dei suoi valori perché il partito è l’insieme dei suoi valori, le persone che lo governano sono incidenti temporanei.

Sì, sono un PDiota e PDiota rimarrò perché i valori centrali che storicamente hanno definito quel mutaforma di sinistra che dagli estremi del PCI è diventato il PD (con i suoi estremi), sono quelli in cui mi riconosco: i valori di una società più equa, che rispetta il lavoratore e il diritto a costituire una famiglia, il diritto a una educazione paritetica e alle pari opportunità per tutti senza alcuna distinzione; i valori di una società che tenga l’uomo al centro, che preservi l’identità della persona e ne tuteli la crescita e la libertà di esprimersi in qualsiasi forma culturale, artistica, professionale e artigianale il suo talento gli permetta di esplorare. Perché una società giusta produce una società sana, produttiva, onesta, acculturata, rispettosa della dignità umana, coesa, solidale e quindi “forte” e identificabile.

Con la caduta dei partiti storici, non sono molti i partiti dello scenario attuale che possano dire di fondarsi su un insieme di valori che non siano una lista puntata nata a tavolino e non da una comunanza maturata dagli eventi della storia e della vita. Nascono aggregazioni per protesta, nascono aggregazioni perché sommano le schegge di altre che sono morte , nascono unioni di intenti e di profitto. Sono veramente pochi quelli con un insieme di valori e una reale, completa, solida e coerente visione della società.

Se mi chiedete di abbandonare il mio universo di valori e le persone che lo condividono per riscattarmi da una presunta disonestà o connivenza con i disonesti, allora probabilmente siete degli artisti delle liste puntate.

Volendo semplificare molto, ci sono tanti tipi di partito e ragioni per aderire a un partito e/o votarlo e abbandonarlo (o non farlo). Diciamo che esistono quattro motivazioni di base per identificarsi in un partito e a queste conseguono le dinamiche di abbandono che vanno da quelle fluide come l’olio bollente a quelle che implicano una giustificata resistenza. Non esistono posizioni grigie, intermedie tra le categorie: si è nettamente in una o in una delle altre. Considerazioni diverse attengono al senso etico e altre qualità o difetti personali o a un desiderio di non essere inquadrati dove non ci piace vederci inquadrati.

1) Ragioni valoriali. Quel partito, è nato attorno a un insieme di valori e a tutela dei diritti che nascono da quei valori e dei cittadini che vi si riconoscono. Oggi sembra un inutile sofismo, filosofia lontana dalla concretezza in un società che non sa fare un riso in bianco ma frequenta i FabLab e che riconosce il primato della cultura tecnologica su quella umanistica e sociale. Eppure la società non è altro che un insieme di persone riunite o organizzate attorno a valori condivisi, dialettica strutturata e un progetto di lungo termine su dove andare e per raggiungere cosa. Quando si aderisce a un partito su queste basi, se il partito in parte si compromette, viola quei valori e si perde non si fugge sfanculando a destra e a manca: i valori sono ancora lì a fare da riferimento. Si rimane e si scelgono meglio i propri rappresentanti. Non sono un renziano ma sono un elettore del PD e rimarrò un elettore del PD perché la stragrande maggioranza dei suoi elettori e politici è specchiatamente onesta e volenterosa e capace (stragrande maggioranza, talmente stragrande che la minoranza non mi preoccupa e sono sicuro che ci siano gli anticorpi per eliminarla).

2) Ragioni Opportunistiche. Un partito, più frequentemente se non storico ma con eccezioni, nasce per tutelare non solo diritti ma anche interessi. Se gli interessi sono predominanti e non riguardano la maggior parte dei cittadini ma solo una esigua minoranza o addirittura una ben precisa classe elitaria, ecco che la ragione per aderire è evidentemente quella di far parte di quella classe e quindi tutelare esclusivamente i propri bisogni e posizione. Una prima differenza rispetto al 1) è in sè nella tutela degli interessi e non dei diritti. Non voglio scendere nei dettagli perché questo post — pur orientato — vuole dare una lettura di un fenomeno e non puntare il dito ma alcuni anni fa, di fronte all’esito elettorale pur in presenza di scandali abbastanza eclatanti, chiesi a un collega che aveva votato per il partito vincente: “Perché?”. La risposta di uno fu la più sensata, onesta e comprensibile di tutte: “So che tipo di personaggi ho votato, non sono orbo. Ma per il mio stato sociale, il mio tipo di ruolo nell’azienda in cui lavoro e nella società, per il mio tenore di vita e la protezione di tutto questo, votare FI è il modo migliore per vedere sostenuto il mio interesse”. Aderire a un partito per opportunismo permette di saltellare da un partito all’altro seguendo il filo rosso dei propri interessi, senza bisogno di scomodare un universo di valori sociali che ti porta ad avere qualche problema di coscienza. A questi signori potete chiedere di abbandonare un partito perché a voi non piace, posto che gli offriate qualcosa che piaccia a loro.

3) Ragioni reazionarie di tipo 1. La reazione di tipo 1 è il moto di protesta che si scatena con un misto di rabbia e delusione di fronte all’impossibilità di votare per chi si è sempre votato, essendo venuti meno i presupposti di fiducia e mancando un’alternativa all’interno della stessa compagine elettorale. E’ un voto pensato e calcolato che si dirige (nelle intenzioni) temporaneamente verso partiti compatibili con il proprio credo valoriale o addirittura verso individui precisi, con una fiducia limitata a esse per la sola situazione contingente. Di solito comporta un voto di ritorno quando le condizioni tornano “normali”, visto che in fondo ci si riconosce ancora nelle finalità e aggregazioni sociali dalle quali si proveniva. Lasciare un partito così può essere difficile, specialmente se si crea un nesso forte con l’alternativa ma non ci sono ostacoli di tipo etico. A Bologna vinse il centrodestra come chiaro voto di protesta, un segnale alla sinistra italiana che la misura era colma. Durò un amen, e si tornò indietro. Ma se le figure che si sono votate in alternativa risultassero eccellenti e di alta statura morale e professionale, il voto reazionario potrebbe anche diventare di lungo periodo. La stagione dei sindaci della fine degli anni ’90 ha portato più proseliti in modo stabile ai partiti di quanto non abbiano fatto le politiche nazionali. Potete provare a chiedere a un reazionario di tipo 1 di abbandonare il suo partito, purché gli diate un modello indiscutibile e specchiato nel quale riconoscersi ma attenzione perché i reazionari di tipo 1 non sono molti essendo quasi sempre membri della categoria 1).

4) Ragioni reazionarie di tipo 2 o “dell’incazzatura a vena chiusa”, come direbbe un noto cronista sportivo. La reazione di tipo 2 fa esplodere moti di protesta nel quale la ragione della fuga non è razionale ma puramente emotiva, spesso etero-alimentata con amplificazione scientifica dei segnaliindividuali scatenanti pulsioni belluine: chi reagisce così non ha fatto alcuna analisi, non ha individuato alcuna stortura comprendendone le cause e circoscritto i responsabili; chi reagisce così si accoda bovinamente e si associa alle urla senza alcun interesse in merito a quale ne sia la fonte e quale ne sia la sostanza. Il rifiuto per tutto ciò che è stato fino a due minuti prima è immediato, netto e violento. Dietro il paravento dell’invio di un messaggio di trasformazione agli altri (come nel tipo reazionario 1) c’è in realtà un rifiuto nichilistico della società, della sua scala e parametri meritocratici, del risultato ottenuto dagli altri perché questa società è percepita come integralmente ingiusta e gli altri non hanno meriti ma solo vantaggi. La reazione è viscerale e non ruota mai attorno alle specificità (il complesso di una manovra finanziaria, la scelta di non bloccare un inceneritore o di alterare la viabilità in un senso anziché in un altro o il piano per le abitazioni popolari del micro-comune appollaiato sui monti) ma sempre e solo attorno a categorie generiche e malpanciste: quello ruba? Allora rubano tutti (ma io no). Quello mangia? Allora mangiano tutti (ma io no). Ho letto da qualche parte che la nonna del cugino dello zio di un amico della mia amica ha dovuto curarsi con quel farmaco mentre bastava un po’ d’aglio nella grappa e sarebbe ancora viva? Allora tutti i medici sono infami speculatori, asserviti alle lobby del farmaco e per questo non usano l’aglio nella grappa (ma io no).

Il conflitto nasce nella realizzazione dell’ambiguità di quel “ma io no” che nelle intenzioni superficiali e di facciata è dato per rimarcare una distanza etica ma nella quasi totalità dei casi si scontra con la delusione per non essere della partita. “Ma io no” si schianta contro lo sconto dell’idraulico se non chiediamo la fattura, si disintegra contro l’amico che ci fa fare una TAC con tre mesi di anticipo a scapito di chi ne ha altrettanto o maggiore bisogno, di chi non paga il biglietto dell’autobus o non emette lo scontrino o usa il telefono di servizio per fare chiamate intercontinentali perché tanto l’azienda frega me e allora io frego lei. Nel rigetto di tipo 2, la protesta è una forma di riscatto per il proprio isolamento, per la propria incapacità di contribuire in modo diretto al bene comune, per la frustrazione di non essere sul trono dell’onestà e della capacità ma solo un paggetto ai margini delle luci della ribalta. E soprattutto per il gusto di vedere qualcuno più potente o più preparato o più ricco o più bello o semplicemente più fortunato di noi, soffrire e venire sputtanato e sbeffeggiato in pubblico.

Da questo partito non si fugge mai perché è il partito del “Ma Io No”.

Il partito "Ma io no".
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  • PDiota sei e PDiota rimani
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Il partito “Ma io no”. ultima modifica: 2016-09-20T23:41:33+02:00 da marcofan

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